Gli ultimi saranno i primi: agricoltura e sviluppo economico

di Giampiero Marcello.

Essere primi è, di solito, una buona cosa. Chi arriva prima in un luogo può consolidare la sua posizione, che chi viene dopo difficilmente riuscirà a scalzare. Chi acquisisce per primo la conoscenza di un fenomeno e sviluppa una nuova tecnologia acquisisce un vantaggio che chi lo segue faticherà a colmare. Analogamente, l’agricoltura avrebbe conferito alle popolazioni che la adottarono per prime un vantaggio decisivo nello sviluppo tecnologico ed economico. Uno studio recente, tuttavia, sembra smentire questa tesi.

L’agricoltura fu introdotta per la prima volta 12.000 anni fa nel Vicino Oriente. In periodo compreso tra due e tre millenni si affermò tra le popolazioni che vivevano in un territorio a forma di arco compreso tra Turchia, Siria, Iraq, Iran, Libano, Israele e Palestina, un’area chiamata dagli archeologi mezzaluna fertile. Dal luogo d’origine si diffuse progressivamente nelle aree vicine, tra le quali l’Europa. In tempi successivi, l’agricoltura si è sviluppata indipendentemente in Asia e nelle Americhe.


L’area del Vicino Oriente nella quale si diffuse l’agricoltura a partire da 12.000 anni fa, chiamata dagli studiosi mezzaluna fertile. Di GFDL, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons.

L’agricoltura ha consentito alle popolazioni che l’hanno adottata di abbandonare lo stile di vita precario dipendente dalla caccia e dalla raccolta di frutti spontanei. Divenute sedentarie, queste popolazioni hanno potuto migliorare il loro tenore di vita. Prese il via la rivoluzione neolitica: solo una parte della popolazione lavorava i campi per produrre cibo in abbondanza, superiore alle necessità di sostentamento dei contadini stessi. Fu così possibile dispensare una parte della popolazione dal lavoro agricolo, cosicché potesse dedicarsi all’artigianato e all’arte, allo studio della natura, alla riflessione filosofica e religiosa, al governo della società, alla guerra. Col tempo, la diffusione dell’agricoltura ha permesso alle comunità che l’hanno adottata di accaparrarsi tutte le terre fertili, confinando i cacciatori-raccoglitori in aree limitate della Terra, spesso desertiche o isolate geograficamente.

L’agricoltura è il punto di partenza dal quale la società si sviluppa ulteriormente nel commercio, nell’industria e nei servizi, fino alla rivoluzione industriale, migliorando il benessere della popolazione in termini di salute, istruzione e ricchezza. L’agricoltura, pertanto, conferisce un vantaggio nello sviluppo economico e sociale ai popoli che la adottano per primi. L’Europa ha avuto la fortuna ad essere vicina alla mezzaluna fertile: l’agricoltura si è diffusa in Europa nell’arco di alcuni millenni – un tempo relativamente breve nel quadro dei cambiamenti lenti della preistoria – prima che in altre aree del pianeta. Tale vantaggio ha consentito agli europei di conseguire i risultati tecnologici, economici e militari con i quali hanno esteso il loro dominio in tutto il mondo, formando grandi imperi coloniali. Almeno questo è ciò che gli studiosi hanno sostenuto fino ad oggi:

I popoli che divennero agricoltori per primi si guadagnarono un grande vantaggio sulla strada che porta alle armi, all’acciaio e alle malattie: da allora, la storia è stata una lunga serie di scontri impari tra chi aveva qualcosa e chi no.[1]

Uno studio recente ribalta questa prospettiva: adottare per primi l’agricoltura non è un vantaggio, ma è uno svantaggio che grava sul benessere economico dopo diversi millenni.[2] Sulla base dei dati di centinaia di siti archeologici situati nella mezzaluna fertile e in Europa è stata elaborata una stima dell’introduzione dell’agricoltura in numerose regioni dell’Europa e del Vicino Oriente, per le quali è disponibile anche il prodotto interno lordo pro-capite nel 2005.[3] L’analisi statistica dei dati rivela che le regioni nelle quali l’agricoltura è arrivata più tardi sono le più ricche, mentre le regioni nelle quali è stata adottata prima sono più povere.

Nel campione studiato, la regione che ha adottato per prima l’agricoltura si trova in Siria: il suo record è 9.743 anni prima dell’anno di riferimento adottato dagli archeologi, il 2000. Gli archeologi esprimono ciò con l’espressione 9.743 anni BP, che sta per before present, che in inglese significa prima di oggi, in cui oggi è l’anno 2000. La regione che ha adottato per ultima l’agricoltura si trova in Danimarca, solo 5.608 anni BP. In astratto, la Siria avrebbe dovuto accumulare un vantaggio incolmabile rispetto alla Danimarca in quattromila anni. In realtà, la Danimarca è oggi tra i paesi più ricchi del mondo, ben più ricca della Siria.[4] Anche negli altri paesi scandinavi – Svezia, Norvegia, Finlandia – l’agricoltura è stata introdotta tardi, ma il reddito pro-capite è più elevato di quello dei paesi – Iraq, Iran, Egitto – nei quali l’agricoltura si è sviluppata prima.

L’agricoltura si è diffusa in Italia intorno a 7.300 anni fa. Nell’immagine, un panorama di terreni agricoli in località Castel Campanile, nel comune di Fiumicino (RM). Fotografia di Giampiero Marcello, 24 marzo 2002.

Considerati tutti i casi nel loro insieme, gli autori dello studio sono in grado di concludere che, in media, se l’introduzione dell’agricoltura fosse stata introdotta in una regione 1.000 anni prima, il prodotto pro-capite sarebbe stato inferiore del 39%. Per fare un esempio consideriamo il caso dell’Italia. Secondo l’Istituto nazionale di statistica (Istat), il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite dell’Italia nel 2019 è stato pari a 28.547 euro. Se in Italia l’agricoltura fosse stata adottata nell’anno 8.300 BP, mille anni prima della data effettiva del 7.300 BP, il PIL pro-capite sarebbe pari a 19.983 euro, ovvero ben 8.564 euro in meno.

Qual è la ragione di questo paradosso?

Secondo gli autori, in base ai dati empirici non è sostenibile la tesi che contrappone i popoli del nord, che sarebbero più operosi e produttivi perché abituati ad affrontare le condizioni di vita più dure dei climi rigidi delle regioni settentrionali, ai popoli del sud, meno produttivi perché più pigri a causa delle comodità offerte dei climi caldi delle regioni meridionali. Anche altre spiegazioni legate al clima cadono, come quella che recita che le piogge più abbondanti di alcune regioni favoriscono l’agricoltura, mentre un’altra afferma che le temperature più calde favoriscono l’agricoltura.

Non sono confermate dall’analisi altre tesi, come quella che lega alla fertilità della terra il successo economico di una regione, o quella che afferma che è avvantaggiato lo sviluppo del commercio delle regioni più vicine alle vie di comunicazione attraverso fiumi e mari, le più facili e quindi le più economiche da percorrere rispetto a quelle terrestri.

Di fronte all’inadeguatezza di queste spiegazioni, che spesso sentiamo ripetere come talmente evidenti da non richiedere approfondimenti, gli autori dello studio preferiscono seguire una interpretazione diversa dei fatti storici.

Nelle prime fasi dello sviluppo agricolo il perfezionamento delle tecniche, quali l’irrigazione e l’aratura, e l’ampliamento delle terre coltivabili favorisce un aumento significativo della produzione di prodotti alimentari, migliorando il benessere della comunità che l’ha adottata. Ciò consente alle comunità che hanno adottato l’agricoltura per prime di sostenere una popolazione crescente, fondare città, divenire più ricche e più potenti.

Le società che hanno adottato per prime l’agricoltura si assicurano un reale vantaggio economico su quelle agricole su quelle pre-agricole, che dura per alcuni millenni. Poi però accade qualcosa che frena lo slancio dei primi, erode il loro vantaggio e inverte la classifica, assegnando il primato economico alle società che per ultime sono divenute agricole.

Le regioni nelle quali si è sviluppata prima l’agricoltura sono caratterizzate da grandi differenze sociali, con regimi politici centralizzati e autoritari, che funzionano esclusivamente a favore di un piccolo gruppo che sfrutta il resto della popolazione. Tali comunità sono regolate da istituzioni dette estrattive, perché consentono a chi si trova al vertice della società di estrarre a proprio vantaggio gran parte della ricchezza che la comunità produce.

Alle istituzioni estrattive si contrappongono le istituzioni inclusive, grazie alle quali le diverse componenti della comunità che le adottano riescono a trarre vantaggio in modo più equo della produzione sociale. Queste comunità sono caratterizzate da regimi politici pluralistici, nei quali il potere è distribuito tra le diverse componenti sociali. Le differenze sociali ed economiche esistono, ma sono meno marcate che nelle comunità con istituzioni estrattive.

Le comunità con istituzioni inclusive sono caratterizzate da una mobilità sociale maggiore delle società estrattive. Nelle prime si attua sistematicamente un rimescolamento delle carte, con un buon numero di esponenti degli strati sociali più svantaggiati che riescono ad ascendere ai livelli superiori della società. Nelle seconde, i figli di coloro che si trovano al vertice della piramide sociale tendono a rimanere ai vertici, ereditando la posizione di vantaggio dei propri genitori.

I paesi con un regime istituzionale estrattivo sono meno innovativi, soffocano la crescita diffusa del benessere economico della popolazione e tendono a ristagnare dal punto di vista economico. I paesi con un regime istituzionale inclusivo sono più dinamici, le innovazioni tecnologiche si diffondono più facilmente e sono impiegate a favore di più ampi strati della popolazione, con conseguenze positive sull’economia.[5]

Queste spiega, secondo gli autori dello studio, come gli ultimi arrivati nell’adottare l’agricoltura siano stati in grado di diventare i primi oggi per benessere economico. Nel corso dei millenni di vantaggio che l’adozione dell’agricoltura ha dato loro, le organizzazioni proto-statali centralizzate ed autoritarie dell’Oriente hanno avuto il tempo di consolidarsi, costituendo un freno allo sviluppo economico, mentre in Occidente, il modello sociale pluralistico delle società pre-agricole è sopravvissuto e si è affermato in gran parte dei paesi, stimolando lo sviluppo dell’economia e, in ultimo, di regimi politici democratici.

Una tesi paradossale, con una spiegazione troppo semplice? Forse, ma è stimolante. Vale la pena di approfondire.

Note

1 Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Torino: Einaudi, 1998, p.76.

2. Ola Olsson, Christopher Paik, A western reversal since the Neolithic? the long-run impact of early agriculture, The Journal of Economic History, March 2020, https://doi.org/10.1017/S0022050719000846.

3 Il prodotto interno lordo è una misura del benessere economico che è uguale alla somma del valore monetario della produzione di beni di consumo e di investimento realizzata dalle imprese residenti in un certo territorio nell’arco di un anno e del valore monetario dei beni e dei servizi resi disponibili da parte del governo. Il prodotto interno lordo pro-capite è il prodotto medio per abitante del territorio considerato. Il prodotto interno lordo pro-capite è una misura del benessere economico perché chi un’area in cui la produzione è più elevata di un’altra governo e imprese sono in grado di soddisfare una maggiore quantità di bisogni della popolazione, sia direttamente con i beni e i servizi prodotti, sia indirettamente scambiando beni e servizi con altre comunità.

4 Lo studio fa riferimento alla situazione della Siria precedente alla guerra civile che la insanguina dal 2012.

5 I concetti di estrattività e di inclusività delle istituzioni politiche e del loro legame con lo sviluppo economico è trattato in profondità, con numerosi esempi storici, nel libro di Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà, Milano: Saggiatore, 2013.

20 settembre 2020 (ultima revisione 3 aprile 2021)